Ciao.
Il
lavoro nobilita l’uomo.
Ma
anche viceversa. E’ uno scambio reciproco e solo se reciproco gratificante per
se stessi e per la comunità. Ci gratifica ciò che appaga la nostra
soddisfazione, ciò che rende onore ai nostri sforzi.
Perché
a lavorare ci vuol fatica e a lavorare bene ce ne vuole ancora di più. Ma non
può bastare una fredda busta paga a bilanciare emotivamente le nostre anime. Lo
stipendio è dovuto, ci mancherebbe, e servirà a pagarci la sopravvivenza (cibo,
mutuo casa, spese mediche). Lo stipendio ci basta a parificare il peso della
scelta di un lavoro che magari non avremmo fatto mai per scelta. Lo stipendio,
se un po’ più alto, ci può far togliere qualche voglia. Lo stipendio sono soldi,
necessari per vivere in un mondo che misura tutto sul denaro, il cui metro di
paragone è il soldo. Sia.
Ma
i soldi non ripagheranno mai lo spirito. E un lavoro ben fatto è eseguito
inevitabilmente con l’anima. Dov’è l’anima al giorno d’oggi nel mondo del
lavoro? Entriamo, meccanicamente eseguiamo, usciamo. Passiamo più ore della
giornata in ufficio che in altri posti e il lunedì mattina non riusciamo
nemmeno a raccontarci che abbiamo fatto di bello nel weekend.
Cos’è
un lavoro che predilige la bramosia dei numeri da budget alla serenità di un
sorriso? Cos’è un lavoro se viene fatto per catalogarlo e non per esprimere la
propria propensione? Che cos’è un lavoro se serve solo a renderci ricchi e
tristi, benestanti e nervosi, borghesi e insignificanti? Che cos’è un lavoro se
a fine giornata non ci resta un senso di orgoglio addosso? Che cos’è un lavoro
se non una manifestazione di noi?
Certo:
il sistema che impera, i capi che comandano, la famiglia da mantenere, i ritmi del mondo.
Io
direi invece: codardia, pigrizia, ignoranza, mancanza di un minimo di amor
proprio e mancanza d’amore verso il prossimo.
Ci
stiamo svuotando, scolorendo, opacizzando, ci stiamo consumando, sporcando,
strapazzando, ci stiamo smarrendo, appannando, svilendo. Ci stiamo morendo
addosso.
Bye,
Sly